lunedì 14 gennaio 2013

Motociclista non fa indossare il casco al passeggero: è omicidio colposo

Cassazione penale , sez. IV, sentenza 08.11.2012 n° 43449 Se il motociclista non fa indossare il casco al passeggero, in caso di incidente, risponde di omicidio colposo. E' quanto ha stabilito la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 8 novembre 2012, n. 43449, che ha ritenuto del tutto irrilevante che il soggetto trasportato fosse maggiorenne e, quindi, capace e pienamente responsabile delle sue azioni. Il fatto vedeva un motociclista essere condannato per omicidio colposo per non aver fatto indossare il casco alla sua passeggera che, a seguito di un incidente, è deceduta. Secondo i giudici della Suprema Corte, sebbene il codice della strada stabilisca che il conducente è responsabile per il mancato rispetto dell’obbligo del casco, da parte del passeggero, solo se quest’ultimo è minorenne, il conducente è comunque responsabile per omesso controllo, a nulla rilevando che manchi una specifica violazione contravvenzionale. Per la Corte di Cassazione, quindi, correttamente all’imputato è stato addebitato l’omesso controllo dell’uso del casco da parte della passeggera.

Supercondominio, quando sussiste? La risposta della Cassazione

Cassazione civile , sez. II, sentenza 14.11.2012 n° 19939 Con il termine “supercondominio” s'intende la fattispecie legale che si riferisce ad una pluralità di edifici, costituiti o meno in distinti condomini, ma compresi in una più ampia organizzazione condominiale, legati tra loro dall'esistenza di talune cose, impianti e servizi comuni - il viale d'accesso, le zone verdi, l'impianto di illuminazione, la guardiola del portiere, il servizio di portierato, etc. - in rapporto di accessorietà con fabbricati. E’ questa la definizione individuata dalla Corte di Cassazione con la sentenza 14 novembre 2012 n. 19939 che ha affrontato un’interessante questione in materia condominiale. In particolare, secondo gli Ermellini, ai fini della costituzione di un supercondominio, non è necessaria né la manifestazione di volontà dell'originario costruttore, né quella di tutti i proprietari delle unità immobiliari di ciascun condominio, essendo sufficiente che i singoli edifici, abbiano, materialmente, in comune alcuni impianti o servizi, ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art. 1117 cod. civ. Al supercondominio, pertanto, si applicano in toto le norme sul condominio, anziché quelle sulla comunione, come, ad esempio, l’art. 1136 cod. civ. in tema di convocazione, costituzione, formazione e calcolo delle maggioranze, fermo restando che all’assemblea del supercondominio hanno diritto di partecipare tutti i singoli condomini, salvo che l’eventuale regolamento non disponga diversamente. Inoltre, secondo il Palazzaccio, costituendosi il supercondominio"ipso iure et facto" esso può essere escluso o dal titolo o dal Regolamento condominiale. Nel caso concreto, due coniugi avevano citato in giudizio il condominio per l’annullamento di due delibere condominiali, in quanto ritenevano illegittima la ripartizione delle spese, relative ad alcuni interventi su di un unico stabile, tra tutti i condomini delle unità immobiliari ubicate in tre distinti edifici. Infatti, trattandosi di supercondominio, secondo gli attori, nelle delibere assembleari ai fini della partecipazione del voto, della formazione delle maggioranze e della ripartizione delle spese comuni è necessario considerare separatamente le tabelle millesimali di ogni singolo fabbricato, contrariamente a quanto fatto dall’amministratore che pur consapevole dell'esistenza di un supercondominio, avrebbe convocato un'unica assemblea condominiale ponendo all'esame materie attinenti ai singoli fabbricati. La questione viene decisa in senso sfavorevole per gli attori sia in primo grado che in appello, mentre in Cassazione – come già detto – la Corte accoglie la loro tesi. Infatti, secondo Piazza Cavour, la Corte territoriale non ha tenuto conto della situazione di fatto, così come rappresentata, cioè quella di tra fabbricati autonomi, aventi in comune alcuni beni e servizi, e, di trarre le dovute conseguenze, anche sul piano del diritto da applicare, tenendo presente che le materie relative ai singoli fabbricati non avrebbero potuto e dovuto essere trattati dall'assemblea del supercondominio ove si registra la partecipazione anche dei proprietari degli altri edifici. Da qui la cassazione della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello territoriale.

giovedì 10 gennaio 2013

Codice della Strada: aumentano gli importi delle sanzioni

Decreto Ministero Giustizia 19.12.2012, G.U. 31.12.2012 Emanate le nuove norme in materia di aggiornamento degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie, conseguenti a violazioni del codice della strada, ai sensi dell'articolo 195 del Codice della Strada (D.lgs. 285/1992). E' quanto contenuto nel D.M. Giustizia 19 dicembre 2012 pubblicato in Gazzetta Ufficiale 31 dicembre 2012, n. 303. In particolare, il provvedimento prevede un aumento medio di circa il 5% rispetto al precedente periodo. Per favorire l'immediata applicazione dei nuovi importi delle sanzioni amministrative pecuniarie il Ministero dell'Interno ha predisposto due note sintetiche (allegate alla Circolare 31 dicembre 2012) con le quali vengono illustrati, articolo per articolo, gli importi soggetti ad aggiornamento e quelli esclusi dall'operazione MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DECRETO 19 dicembre 2012 Aggiornamento degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie conseguenti a violazioni al Codice della strada, ai sensi dell'articolo 195 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285. (12A13749) (GU n. 303 del 31-12-2012) IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA di concerto con IL MINISTRO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE e IL MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI Visto l'art. 195, commi 3 e 3-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il Nuovo Codice della strada; Visto il decreto del Ministro della giustizia del 22 dicembre 2010; Ritenuto di dover provvedere, in conformita' alla citata disposizione legislativa, all'aggiornamento delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal citato Nuovo Codice della strada, in misura pari all'intera variazione dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, media nazionale, verificatasi nel biennio dal 1° dicembre 2010 al 30 novembre 2012; Ritenuto di dover escludere dal predetto aggiornamento l'importo delle sanzioni introdotte nel Nuovo Codice della strada e norme correlate per effetto delle disposizioni dell'art. 36, comma 10-bis, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con legge 15 luglio 2011, n. 111, dell'art. 1, comma 3, della legge 22 marzo 2012, n. 33, dell'art. 17, comma 12, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27, e dell'art. 11-bis del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con legge 4 aprile 2012, n. 35, non essendo decorso il previsto biennio dalla loro entrata in vigore; Considerato che l'indice di variazione percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatosi nel biennio dal 1° dicembre 2010 al 30 novembre 2012, calcolato dall'Istituto Nazionale di Statistica, e' del 5,4%; Decreta: Art. 1 1. La misura delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il Nuovo Codice della strada e successive modifiche e integrazioni, e' aggiornata secondo la tabella I figurante in allegato al presente decreto. 2. Dall'adeguamento di cui al comma 1 sono escluse le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalle disposizioni del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e norme correlate, come introdotte o modificate dalle disposizioni dell'art. 36, comma 10-bis, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con legge 15 luglio 2011, n. 111, dell'art. 1, comma 3, della legge 22 marzo 2012, n. 33, dell'art. 17, comma 12, del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27 e dell'art. 11-bis del decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con legge 4 aprile 2012, n. 35, riportate nella tabella II in allegato al presente decreto. Il presente decreto sara' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e avra' effetto a decorrere dal 1° gennaio 2013. Roma, 19 dicembre 2012. Il Ministro della giustizia Severino Il Ministro dell'economia e delle finanze Grilli Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Passera Registrato alla Corte dei conti il 31 dicembre 2012. Registro n. 10, foglio n. 193. -------------------------------------------------------------------------------- Allegato Tabella I Gli importi delle sanzioni amministrative del pagamento di una somma, previste dal codice della strada, devono intendersi sostituiti come segue: Ove era prevista la sanzione da € 23 a € 92 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 24 a € 97. Ove era prevista la sanzione da € 24 a € 94 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 25 a € 99. Ove era prevista la sanzione da € 38 a € 152 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 40 a € 160. Ove era prevista la sanzione da € 38 a € 154 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 40 a € 162. Ove era prevista la sanzione da € 38 a € 155 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 40 a € 163. Ove era prevista la sanzione da € 39 a € 159 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 41 a € 168. Ove era prevista la sanzione da € 48 a € 94 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 51 a € 99. Ove era prevista la sanzione da € 72 a € 292 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 76 a € 308. Ove era prevista la sanzione da € 76 a € 306 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 80 a € 323. Ove era prevista la sanzione da € 78 a € 311 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 82 a € 328. Ove era prevista la sanzione da € 79 a € 312 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 83 a € 329. Ove era prevista la sanzione da € 80 a € 318 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 84 a € 335. Ove era prevista la sanzione da € 94 a € 191 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 99 a € 201. Ove era prevista la sanzione da € 100 a € 400 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 105 a € 422. Ove era prevista la sanzione da € 120 a € 239 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 126 a € 252. Ove era prevista la sanzione da € 146 a € 584 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 154 a € 616. Ove era prevista la sanzione da € 147 a € 590 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 155 a € 622. Ove era prevista la sanzione da € 148 a € 594 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 156 a € 626. Ove era prevista la sanzione da € 152 a € 608 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 160 a € 641. Ove era prevista la sanzione da € 154 a € 613 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 162 a € 646. Ove era prevista la sanzione da € 155 a € 624 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 163 a € 658. Ove era prevista la sanzione da € 155 a € 620 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 163 a € 653. Ove era prevista la sanzione da € 159 a € 639 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 168 a € 674. Ove era prevista la sanzione da € 200 a € 800 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 211 a € 843. Ove era prevista la sanzione da € 205 a € 410 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 216 a € 432. Ove era prevista la sanzione da € 250 a € 1.000 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 264 a € 1.054. Ove era prevista la sanzione da € 269 a € 1.075 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 284 a € 1.133. Ove era prevista la sanzione da € 279 a € 1.114 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 294 a € 1.174. Ove era prevista la sanzione da € 300 a € 1.200 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 316 a € 1.265. Ove era prevista la sanzione da € 302 a € 1.207 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 318 a € 1.272. Ove era prevista la sanzione da € 307 a € 1.228 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 324 a € 1.294. Ove era prevista la sanzione da € 314 a € 1.256 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 331 a € 1.324. Ove era prevista la sanzione da € 335 a € 1.672 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 353 a € 1.762. Ove era prevista la sanzione da € 350 a € 1.400 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 369 a € 1.476. Ove era prevista la sanzione da € 365 a € 1.460 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 385 a € 1.539. Ove era prevista la sanzione da € 382 a € 1.534 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 403 a € 1.617. Ove era prevista la sanzione da € 389 a € 1.559 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 410 a € 1.643. Ove era prevista la sanzione da € 398 a € 1.596 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 419 a € 1.682. Ove era prevista la sanzione da € 400 a € 1.600 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 422 a € 1.686. Ove era prevista la sanzione da € 500 a € 2.000 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 527 a € 2.108. Ove era prevista la sanzione da € 555 a € 2.220 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 585 a € 2.340. Ove era prevista la sanzione da € 628 a € 2.514 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 662 a € 2.650. Ove era prevista la sanzione da € 669 a € 3.345 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 705 a € 3.526. Ove era prevista la sanzione da € 726 a € 2.918 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 765 a € 3.076. Ove era prevista la sanzione da € 730 a € 2.921 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 769 a € 3.079. Ove era prevista la sanzione da € 731 a € 2.928 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 770 a € 3.086. Ove era prevista la sanzione da € 732 a € 2.955 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 772 a € 3.115. Ove era prevista la sanzione da € 761 a € 3.047 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 802 a € 3.212. Ove era prevista la sanzione da € 767 a € 3.068 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 808 a € 3.234. Ove era prevista la sanzione da € 779 a € 3.119 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 821 a € 3.287. Ove era prevista la sanzione da € 798 a € 3.194 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 841 a € 3.366. Ove era prevista la sanzione da € 849 a € 3.395 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 895 a € 3.578. Ove era prevista la sanzione da € 891 a € 3.565 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 939 a € 3.758. Ove era prevista la sanzione da € 1.000 a € 3.000 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.054 a € 3.162. Ove era prevista la sanzione da € 1.000 a € 4.000 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.054 a € 4.216. Ove era prevista la sanzione da € 1.114 a € 11.139 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.174 a € 11.741. Ove era prevista la sanzione da € 1.256 a € 5.030 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.324 a € 5.302. Ove era prevista la sanzione da € 1.671 a € 6.684 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.761 a € 7.045. Ove era prevista la sanzione da € 1.725 a € 6.903 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.818 a € 7.276. Ove era prevista la sanzione da € 1.769 a € 7.078 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.865 a € 7.460. Ove era prevista la sanzione da € 1.842 a € 7.369 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.941 a € 7.767. Ove era prevista la sanzione da € 1.886 a € 7.546 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 1.988 a € 7.953. Ove era prevista la sanzione da € 2.514 a € 10.061 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 2.650 a € 10.604. Ove era prevista la sanzione da € 4.455 a € 17.823 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 4.696 a € 18.785. Ove era prevista la sanzione da € 10.240 a € 15.360 la stessa deve intendersi sostituita con quella da € 10.793 a € 16.189. Tabella II Disposizioni previste dal codice della strada e norme correlate che sono escluse dall'aggiornamento dell'importo delle sanzioni: Articolo 23, comma 12; Articolo 1, comma 3, legge 22 marzo 2012, n. 33; Articolo 115, comma 1-ter; Articolo 122, comma 5-bis; Articolo 167, comma 2-bis, comma 3-bis e comma 5, secondo periodo.

Insidia stradale, infortunio, pedone, Comune, responsabilità, custodia

Tribunale Verona, sez. II civile, sentenza 22.09.2012 n° 1951 La responsabilità ex art. 2051 c.c. presuppone che il soggetto a cui la si imputa abbia con la cosa un rapporto definibile come custodia (potere di sorveglianza e di modifica dello stato, con esclusione di analogo potere da parte di altri). Accertato tale potere e accertato il danno causato dall’anomalia della cosa custodita, la responsabilità del custode sussisterà, salvo che l’evento – in assenza comunque di un eventuale difetto di diligenza del custode – si sia verificato in modo improvviso e imprevedibile. (P. es., situazione di pericolo provocata dallo stesso danneggiato o da terzi che, nonostante la diligente attività di controllo o di manutenzione esigibile dal custode per garantire un intervento tempestivo, non possa esser rimossa o segnalata con tempestività. Nella specie, invece, tale non poteva esser considerata la circostanza secondo cui l’attrice abitava nelle immediate vicinanze del luogo del sinistro, posto che, insieme a tale circostanza, si sarebbe in ogni caso dovuta provare la precedente conoscenza in capo all’attrice della buca in questione, né che la stessa, al momento dell’infortunio, stesse parlando con l’amica che le stava al fianco, posto che insieme a tale circostanza, si sarebbe dovuto provare come, a causa di ciò, la sua attenzione fosse assolutamente e colposamente sviata, né infine che avrebbe potuto notare ed evitare la buca comunque, posto che era provato come l’illuminazione pubblica fosse carente.)

Definire ''inqualificabile'' la condotta del collega avvocato integra reato di ingiuria

Cassazione penale , sez. V, sentenza 07.11.2012 n° 42954 Scatta il reato di ingiuria se nella lite linguistica tra due avvocati uno definisce come "inqualificabile" il comportamento del collega, anche minacciando conseguenze professionali per un comportamento scorretto che poi, in concreto, non si è verificato. E' quanto ha affermato la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 7 novembre 2012, n. 42954. E’ stata, così, confermata la condanna per il delitto di ingiuria, disposta dal Tribunale di Teramo nei confronti di un legale che, in una lettera indirizzata ad un collega, aveva definito il comportamento di quest’ultimo come “inqualificabile”, rimproverandogli la presunta mancata restituzione di un fascicolo di parte. In conclusione, la lettera con la dicitura “Siamo certi che saprà prendere atto della propria inqualificabile condotta e, pentendosi, restituire quanto di diritto alla mia assistita, e ciò eviterà serie conseguenze al prosieguo della attività professionale”, è idonea, secondo gli ermellini, a configurare un contenuto denigratorio e altamente negativo nei confronti del collega. E ciò in un contesto in cui non era in alcun modo giustificabile la condotta tenuta dall’imputato in considerazione della disponibilità mostrata dal collega alla restituzione del fascicolo asseritamente trattenuto.

mercoledì 9 gennaio 2013

Sfratto per finita locazione: rileva il tempo della disdetta

Cassazione civile , sez. III, sentenza 13.11.2012 n° 19747 In tema di locazione di immobili ad uso abitativo, l'art. 2, comma 6, della legge 9 dicembre 1998, n. 431 va interpretato nel senso che, tra i contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, sono soggetti alla nuova disciplina, anche con riferimento alla doppia durata quadriennale, solo quelli che vedono realizzato il presupposto della rinnovazione nel vigore della nuova legge e, quindi, solo quelli per i quali il termine utile per la comunicazione della disdetta da parte del locatore sia venuto a scadenza in epoca successiva al 30 dicembre 1998 e tale disdetta non sia stata data, sicché la rinnovazione si é verificata nella vigenza della nuova legge. E’ questo il principio interpretativo della Cassazione sul tema, ribadito dalla sentenza del 13 novembre 2012, n. 19747. Inoltre, con riferimento ai contratti stipulati in base al modello normativo di cui alla legge n. 359/1992, che prevedano un duplice periodo di durata quadriennale, il Palazzaccio ha chiarito in precedenza che la rinnovazione tacita che determina la ricaduta del contratto nel regime di cui all’art. 2, comma primo, della nuova legge si identifica nella scadenza del secondo periodo di durata del contratto e non nel primo periodo. Questa precisazione risulta importante in quanto, secondo il ricorrente, in sede di appello la Corte aveva ritenuto erroneamente la disdetta non idonea, sul presupposto della vigenza della l. n. 392/1978. Al contrario, sulla base delle considerazioni della Cassazione, trova applicazione l’art. 14, ultimo comma della l.n. 359/1992, avendo pertanto il locatore regolarmente adempiuto inviando la disdetta. Nel caso di specie, un asilo infantile aveva convenuto in giudizio la controparte con atto di intimazione di sfratto per finita locazione con riferimento ad un’unità immobiliare concessa in locazione ad uso abitativo con contratto in deroga del 27.12.1994. Mentre il giudice di prime cure dichiarava la cessazione del rapporto maturata alla scadenza del secondo quadriennio, al contrario la Corte territoriale respingeva la domanda del locatore, con conseguente proposizione di ricorso per cassazione. Come già detto, la Cassazione riconosce la fondatezza del ricorso in merito alla validità della disdetta; inoltre, affronta anche la questione posta con il ricorso incidentale sul difetto di legittimazione attiva dell’asilo infantile, non più parte locatrice, in quanto l’immobile risultava aggiudicato ad altro soggetto a seguito di asta pubblica. Al riguardo, gli Ermellini rilevano che, essendo il rapporto locativo, al momento dell’aggiudicazione del bene, ancora in corso “de jure e de facto”, i diritti e gli obblighi derivanti da tale rapporto, con riferimento alla ulteriore evoluzione nel tempo, passarono in capo all’aggiudicatario, il quale, a far data dall’aggiudicazione dell’immobile locato – avvenuta prima della notifica dell’intimazione di sfratto per finita locazione e contestuale citazione per la convalida – acquistò inevitabilmente la qualità di locatore. In conclusione, risulta del tutto ovvio, agli occhi dei giudici di Piazza Cavour, che il ricorrente principale non poteva essere più considerato locatore nel momento della proposizione dell’intimazione per sfratto. Da qui l’accoglimento del ricorso e conseguente cassazione della sentenza impugnata

Cassazione: va ripristinato assegno di mantenimento alla ex che deve affrontare spese di ristrutturazione

La Suprema Corte torna sul tema dell'assegno divorzile e con la sentenza n. 21977, depositata il 6 dicembre 2012 ha deciso che l'ex coniuge ha diritto al ripristino dell'assegno di mantenimento se le sue condizioni economiche si sono aggravate per il fatto di dover pagare una rata di mutuo per spese di ristrutturazione. In primo grado, il Tribunale con sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intercorso fra B.G. e C..D.V. poneva a carico del marito un assegno divorzile per l'ammontare di 220 euro. La Corte di appello di Venezia, accogliendo l'appello dell'uomo dichiarava invece che nulla era dovuto alla ex. Successivamente la donna chiedeva il ripristino dell'assegno adducendo il peggioramento delle sue condizioni economiche (condizioni di salute, accresciuta difficoltà di reperire un'occupazione lavorativa, necessità di interventi di ristrutturazione e manutenzione straordinaria nel fabbricato condominiale in cui è ubicata la sua abitazione cui aveva fatto fronte con un mutuo) e il miglioramento di quelle del marito che era entrato finalmente in possesso di alcune proprietà ereditate in precedenza che aveva potuto cedere in locazione. Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso e imponeva all'uomo l'obbligo di versare un assegno mensile di 100 euro. La Corte di appello respingeva il reclamo sia dell'ex marito che della donna. Su ricorso per cassazione dell'ex marito (che aveva dedotto, tra le altre cose la contraddittorietà della motivazione quanto al collegamento fra un aggravio una tantum delle condizioni economiche della ex moglie e l'imposizione a tempo indefinito di un assegno divorzile a suo carico), gli Ermellini hanno spiegato tra le altre cose che "è stato preso in considerazione non l'esborso costituito dall'importo complessivo della quota dei lavori condominiali ma l'esposizione debitoria contratta a tal fine dalla (donna) con l'acquisizione di un finanziamento bancario".

lunedì 16 aprile 2012

Matrimonio riparatore? Nulle le nozze

Cassazione civile , sez. I, sentenza 30.03.2012 n° 5175



Se il matrimonio è celebrato per "riparare" al concepimento non voluto del figlio, e la riserva mentale del coniuge è conosciuta anche dall'altro, è legittima la nullità del vincolo. E' quanto ha stabilito dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 30 marzo 2012, n. 5175.

Il caso vedeva la Corte d'Appello di Napoli confermare la sentenza di nullità matrimoniale emessa dall'autorità ecclesiastica con la quale era stata dichiarata la nullità del matrimonio contratto tra due coniugi per difetto dell'indissolubilità del matrimonio stesso da parte dell'attore.

Per principio generale, fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, in sede di delibazione della sentenza di nullità matrimoniale emessa dal giudice ecclesiastico per esclusione del vincolo dell’indissolubilità ‘‘ex parte viri’’, il giudice italiano è vincolato ai fatti accertati in quella pronuncia, non essendogli concesso il riesame del merito e il rinnovo dell’istruttoria con acquisizione di nuove prove. Al tempo stesso, però, stante la diversa natura dei due giudizi, al giudice italiano non è precluso di provvedere ad una diversa valutazione del medesimo materiale probatorio secondo le regole del processo civile, anche disattendendo gli elementi di conoscenza documentati negli atti del giudizio ecclesiastico.

Cosa che non avviene nel caso di specie. Secondo il giudice nomofilattico, infatti, la breve durata, di appena dieci mesi, della convivenza matrimoniale tra le parti, culminata nell’abbandono del tetto coniugale da parte della donna, caratterizzata da incomprensioni e contrasti continui, verosimilmente dovuti a differenze caratteriali e di educazione ed a carenza di affetto sponsale, tali da renderne intollerabile la prosecuzione, conferma il fatto che la scelta matrimoniale fosse stata determinata dall’intento di riparare all’errore commesso (il concepimento del figlio), anche da parte della medesima e non, invece, dall’intento di questa di vivere con il marito per tutta la vita, il che costituisce un ulteriore dato, che fa presumere la consapevolezza, da parte sua, della riserva mentale di quest’ultimo.


Abbandono del tetto coniugale? Non sempre è reato



Cassazione penale , sez. VI, sentenza 02.04.2012 n° 12310
Il reato di cui all'art. 570 comma. 1 c.p., nella forma dell'abbandono del domicilio domestico, non può ritenersi configurabile per il solo fatto storico dell'avvenuto allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale.

E’ quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che con la sentenza 2 aprile 2012, n. 12310 ha annullato senza rinvio la sentenza contestata da una donna russa che era stata riconosciuta colpevole dal reato di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale. In buona sostanza, secondo i giudici di Piazza Cavour la condotta tipica di abbandono del domicilio domestico è integrata solo in quei casi in cui l’allontanamento risulti privo di una giusta causa, connotandosi – si legge nella sentenza – di reale disvalore dal punto di vista etico e sociale.

Nel caso di specie la Corte di Appello territoriale aveva confermato la decisione del Tribunale impugnata dall’imputato, con la quale la cittadina russa era stata riconosciuta colpevole del reato contestato – abbandono ingiustificato del domicilio coniugale – in quanto, allontanatasi dall’abitazione familiare senza farvi più ritorno, si era sottratta agli obblighi di assistenza morale nei confronti del marito. Secondo la Corte territoriale, risultava accertato sia l’abbandono della casa coniugale sia l’assenza di qualunque ragionevole spiegazione di tale condotta.

La donna – seguendo il ragionamento dei giudici di appello – aveva posto in essere una condotta riconducibile alla sua deliberata volontà e non a supposte cause di forza maggiore o a fatti costrittivi subiti dalla donna stessa. Da qui la conferma della condanna a due mesi di reclusione, previa concessione di attenuanti generiche, con pena condizionalmente sospesa.

La difesa della donna propone ricorso per cassazione, deducendo violazione dell’art. 192 c.p.p. e carenza di motivazione con riferimento alla mancanza di idonee prove della sussistenza del reato, particolarmente sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, le doglianze si concentrano sulla oscurità delle ragioni per cui la donna si era allontanata dalla casa coniugale, non emergendo la reale ingiustificabilità della sua condotta, desunta dalle sole dichiarazioni del marito. Gli Ermellini, come si è visto, ritengono fondato il ricorso in base della considerazione che la fattispecie criminosa si perfeziona soltanto se e quando il contegno del soggetto agente si traduca in un'effettiva sottrazione agli obblighi di assistenza materiale e morale nei confronti del coniuge abbandonato, dato che la qualità di coniuge non è più uno stato permanente, ma una condizione modificabile per la volontà, anche di uno solo, di rompere o sospendere il vincolo matrimoniale.

E’ agevole ricavare, secondo la Cassazione, che l’autonoma manifestazione della volontà del coniuge, anche se non perfezionata nelle specifiche forme previste per la separazione o lo scioglimento del vincolo coniugale, può essere idonea ad interrompere senza colpa e senza effetti penalmente rilevanti alcuni obblighi, tra i quali quello della coabitazione. Non correttamente - chiosano i giudici della Cassazione - sia il Tribunale che la Corte territoriale si sono limitati ad accertare il mero dato oggettivo dell’allontanamento del coniuge dal domicilio familiare, non effettuando quella indispensabile verifica dell’esistenza di ragioni idonee a giustificare quella condotta materiale, quali ad esempio l’impossibilità, l’intollerabilità o l’estrema penosità della convivenza.

Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.


venerdì 13 gennaio 2012

Se l'ex coniuge eredita non viene meno il suo diritto all'assegno divorzile

Cassazione civile , sez. I, sentenza 14.11.2011 n° 23776


Non perde il diritto all'assegno di divorzio chi acquisisca la casa coniugale ed erediti immobili da parte dei propri genitori. E' quanto ha stabilito la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 14 novembtr 2011, n. 23776.

Una donna, dopo aver ottenuto il divorzio, si vedeva rigettare, da parte dei giudici di prime cure, il diritto all'assegno di divorzio, diritto in seguito accordato dai giudici di appello. Da ciò il ricorso dell'ex marito, secondo il quale l’assegno divorzile non sarebbe stato dovuto, posto che il reddito dell’ex moglie era, di per sé, rilevante; inoltre, a detta del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe considerato l’aumento del patrimonio immobiliare della donna, a seguito delle acquisizioni ereditarie conseguenti alla morte della madre.

La giurisprudenza di legittimità, sul punto, ha osservato che l'accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione di un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio.

Nella fattispecie, secondo il giudice nomofilattico, pur a seguito delle acquisizioni immobiliari dell'avente diritto, conseguenti alla morte della madre, perdurava una significativa sproporzione fra i redditi delle parti, oggettivamente desumibile dalle loro dichiarazioni dei redditi, essendo del tutto rilevante, in senso contrario, né la sopraggiunta autonomia delle due figlie (atteso che entrambi i genitori avrebbero tratto beneficio da tale evento), né l'acquisizione della intera proprietà della casa coniugale da parte della donna.



Il promesso sposo pentito paga solo i danni materiali



Cassazione civile , sez. VI-3, ordinanza 02.01.2012 n° 9
La Corte di appello di Catania confermava la sentenza con cui una sezione distaccata del Tribunale di Catania aveva condannato un uomo al risarcimento del danno, quantificato in quasi diecimila euro, a favore della propria ex fidanzata, per “ingiustificata rottura della promessa di matrimonio”. Il danno era stato liquidato per le spese sostenute e le obbligazioni contratte dall’ex fidanzata in vista delle nozze. La Corte territoriale aveva inoltre condannato l’uomo al risarcimento dei danni non patrimoniali, quantificandoli in € 30.000,00.

L’uomo ricorre per Cassazione e quest’ultima, in accoglimento del terzo e del quarto motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato l’uomo al risarcimento dei danni non patrimoniali, confermando la condanna a rimborsare all’ex le spese sostenute, nonché le obbligazioni contratte in vista del matrimonio, nell’importo quantificato in primo grado e confermato dalla Corte territoriale.

In particolare la Cassazione condivide la circostanza che il risarcimento dei danni derivanti dall’ingiustificata rottura della promessa di matrimonio va limitato alle spese sostenute, nonché alle obbligazioni assunte, bensì non può essere dilatato fino al risarcimento dei danni non patrimoniali, in quanto il tirarsi indietro dalla promessa di matrimonio non costituisce alcun illecito.

La Corte, nel motivare la non risarcibilità dei danni non patrimoniali, rammenta che, anche se il danno patrimoniale subito dalla promessa sposa non può restare privo di risarcimento, “la legge vuol salvaguardare […] la piena ed assoluta libertà di ognuno di contrarre o non contrarre le nozze, l’illecito consistente nel recesso senza giustificato motivo non è assoggettato ai principi generali in tema di responsabilità civile […] né alla piena responsabilità risarcitoria che da tali principi consegue, poiché un tale regime potrebbe tradursi in una forma di indiretta pressione sul promittente nel senso dell’accettazione di un legame non voluto”.


Assegno divorzile, eredità, sproporzione redditi

Cassazione civile , sez. I, sentenza 14.11.2011 n° 23776


L'accertamento del diritto all'asegno divorzile va effettuato verificando l'adeguatezza o meno dei mezzi del coniuge richiedente alla conservazione di un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio.

In particolare, se, pure a seguito delle acquisizioni immobiliari di un coniuge conseguenti alla morte della madre, perduri una significativa sproporzione fra i redditi delle parti, oggettivamente desumibile dalle loro dichiarazioni dei redditi, non hanno rilevanza in senso contrario né la sopraggiunta autonomia dei figli (atteso che entrambi i genitori traggono beneficio da tale evento), né l'acquisizione dell'intera proprietà della casa coniugale da parte del coniuge avente diritto all'assegno


Matrimonio, promessa, rottura, spese, risarcimento, danni non patrimoniali

Cassazione civile , sez. VI, ordinanza 02.01.2012 n° 9


La rottura della promessa di matrimonio formale e solenne - cioè risultante da atto pubblico o scrittura privata, o dalla richiesta delle pubblicazioni matrimoniali non può considerarsi comportamento lecito allorché avvenga senza giustificato motivo.

E' indubbio che tale comportamento non genera l'obbligazione civile di contrarre il matrimonio, ma il recesso senza giustificato motivo configura pur sempre il venir meno alla parola data ed all'affidamento creato nel promissario, quindi la violazione di regole di correttezza e di autoresponsabilità, che non si possono considerare lecite o giuridicamente irrilevanti.

Poiché, tuttavia, la legge vuol salvaguardare fino all'ultimo la piena ed assoluta libertà di ognuno di contrarre o non contrarre le nozze, l'illecito consistente nel recesso senza giustificato motivo non è assoggettato ai principi generali in tema di responsabilità civile, contrattuale od extracontrattuale, né alla piena responsabilità risarcitoria che da tali principi consegue, poiché un tale regime potrebbe tradursi in una forma di indiretta pressione sul promittente nel senso dell'accettazione di un legame non voluto. Ma neppure si vuole che il danno subito dal promissorio incolpevole rimanga del tutto irrisarcito.

Il componimento fra le due opposte esigenze ha comportato dunque la previsione a carico del recedente ingiustificato non di una piena responsabilità per danni, ma di un'obbligazione ex lege a rimborsare alla controparte quanto meno l'importo delle spese affrontate e delle obbligazioni contratte in vista del matrimonio. Non sono invece risarcibili voci di danno patrimoniale diverse da queste e men che mai gli eventuali danni non patrimoniali. (Fattispecie ove il ricorrente ha esercitato il recesso solo due giorni prima della data fissata per la celebrazione delle nozze)

Condomini: si applicano norme distanze se compatibili con quelle su comunione

Cassazione civile , sez. II, sentenza 25.10.2011 n° 22092


Con ricorso per manutenzione del possesso due soggetti, proprietari dell’appartamento al primo piano di un edificio, denunciavano che altri due individui, proprietari del sottostante appartamento, avevano realizzato tre pensiline.

A dir della difesa degli attori, sussisteva violazione del diritto di veduta e il manufatto danneggiava l’estetica della facciata. Nel contempo ne chiedevano la rimozione sull’assunto che, mediante siffatte pensiline, era possibile accedere, dal muro di cinta, all’unità immobiliare degli attori. Entrambi i giudici di merito aditi rigettavano la domanda.

La Corte territoriale aveva peraltro rilevato che dette pensiline erano state costruite “con materiale elegante e in armonia con le caratteristiche strutturali e le linee estetiche del fabbricato”, escludendo il pericolo alla sicurezza del primo piano, sulla considerazione della fragilità della lastra in policarbonato. Altresì veniva esclusa la violazione del diritto di veduta, data la trasparenza del materiale con le quali le pensiline erano state realizzate.

La Cassazione respinge ulteriormente le doglianze degli attori, rammentando la propria consolidata giurisprudenza in materia di distanze legali: queste sono rivolte a regolamentare i rapporti fra proprietà contigue e separate, e risultano applicabili altresì nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale qualora siano compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.). Ciò, in particolare, quando l’applicazione delle norme sulle cose comuni non siano in contrasto con quelle sulle distanze.

Qualora sorga conflitto, precisa la Cassazione, prevalgono le norme sulle cose comuni e pertanto risultano inapplicabili quelle disciplinanti le distanze legali che, nel condominio degli edifici e nei rapporti fra il singolo condomino e l’ente condominiale, risultano “in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cass. 6546/2010; 7044/2004; 8978/2003; 15394/2000; 9995/1998; 10704/1994)”.

Pertanto, qualora in giudizio si accerti che l’uso della cosa comune é avvenuto nell’esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti di cui all’articolo 1102 del Codice civile, a tutela degli altri condomini, è del tutto legittima l’opera, anche se posta in essere in assenza del rispetto della disciplina che regolamenta i rapporti fra proprietà contigue, a condizione che la relativa osservanza risulti “compatibile con la struttura dell’edificio condominiale, in cui le singole proprietà coesistono in unico edificio”.

martedì 10 gennaio 2012

Maltrattamenti in famiglia, minore, ipercura, iperprotezione, configurabilità

Cassazione penale , sez. VI, sentenza 10.10.2011 n° 36503


In ambito familiare, atteggiamenti di iperprotezione ed ipercura nei confronti di un minore, qualora non contribuiscano ad un adeguato sviluppo psico-fisico di quest'ultimo, posso far configurare il reato di maltrattamenti nei confronti del minore stesso.

(*) Riferimenti normativi: art. 572 c.p.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 23 settembre – 10 ottobre 2011, n. 36503

(Presidente Milo – Relatore Lanza)

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

C. E., e G. G., rispettivamente madre e nonno materno del minore C. R. (nato il omissis) ricorrono, a mezzo del loro comune difensore, avverso la sentenza 19 ottobre della corte d'appello di Bologna (che li ha condannati per il delitto di cui all'art. 572 c.p., confermando la decisione di condanna 17 maggio 2007 del G.U.P. del Tribunale di Ferrara), deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1) l'accusa e le conformi decisioni dei giudici di merito.

I G. (nonno materno e madre del minore C. R.), sono imputati: 1) del delitto p. e p. dall'art. 572 c.p. per aver, in concorso tra loro, quali conviventi con il minore C. R., nato il (omissis), mediante atteggiamenti iperprotettivi nei confronti del minore medesimo, consistiti fra gli altri nel non far frequentare con regolarità la scuola allo stesso, nell'impedire la sua socializzazione (il minore ha conosciuto suoi coetanei solo in prima elementare), nell'impartire regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico del minore con conseguenti disturbi deambulatori, prospettandogli, inoltre, la figura paterna come negativa e violenta tanto da imporgli di farsi chiamare con il cognome materno, sottoponendolo a tutte dette vessazioni, maltrattato il minore C. R. Reato commesso in Ferrara tino al mese di ottobre 2004.

Con sentenza 17 maggio 2007 del G.U.P. di Ferrara, all'esito di giudizio abbreviato, gli odierni ricorrenti sono stati dichiarati responsabili del reato ascritto e condannati alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ciascuno (pena base anni 3, in ragione della speciale gravità delle condotte e della loro prosecuzione per anni, ridotta ad anni 2 per le generiche ed ulteriormente come a dispositivo per la scelta del rito). Il G.U.P. ha negato la chiesta sospensione condizionale della pena, che è stata peraltro interamente condonata.

Con sentenza 19 ottobre 2010 la Corte di appello di Bologna su gravame degli imputati ha confermato le statuizioni del G.U.P. di Ferrara in data 17 maggio 2007.

Per i giudici di merito gli atti di maltrattamento, nei confronti del minore, convivente con la madre ed il nonno nella casa di questi, si sono materializzati:

a) in atteggiamenti iperprotettivi qualificati come "eccesso dì accudienza", mantenuto e proseguito in età preadolescenziale, con imposizione di atti riservati all'età infantile, nonché nell’esclusione del minore da attività anche didattiche istituzionali, inerenti la motricità;

b) in deprivazioni sociali (impedimento di rapporti con coetanei) e psicologiche (rimozione della figura paterna); condotte tutte contestate come commesse fino all'ottobre 2004.

Tali condotte, una volta accertate, sono state nel loro complesso valutate come concretamente idonee a ritardare gravemente nel minore sia !o sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l'acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione).

2.) i motivi di impugnazione.

Il ricorso è articolato in quattro diffusi motivi di doglianza, i primi dei quali attengono all'azione esecutiva e ai profili soggettivi del delitto di maltrattamenti, mentre l'ultimo riguarda l'entità della sanzione irrogata.

Con un primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto, sotto il profilo dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p.

Con un terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p. per difetto del dolo.

Con un quarto motivo si evidenzia l'illogicità della motivazione posta a fondamento del trattamento sanzionatorio, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione, e a cui si è accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato.

3.) Le ragioni della decisione di rigetto della Corte di legittimità.

Prima di esaminare analiticamente il tenore del gravame va precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza del primo giudice, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

La difesa degli imputati sostiene che la Corte d'Appello di Bologna ha confermato la sentenza di prime cure, maturando un giudizio di diritto che non può essere condiviso, in quanto, per confermare la decisione del Giudice di primo grado, essa ha finito per rimodellare la struttura del reato di maltrattamenti, stravolgendone la natura e gli elementi costitutivi, al fine di rendere applicabile la predetta norma sostanziale a condotte che non possono rientrare, invece, nell'ambito dell'elemento oggettivo richiesto dalla norma in esame.

2.1) l'elemento oggettivo del reato e la conforme azione esecutiva nella condotta dei ricorrenti.

Il ricorrente, premesso l'assunto (pacifico) che maltrattamenti di cui si sarebbero resi responsabili G. consisterebbero sostanzialmente in atteggiamenti di iperprotezione e di ipercura, prospetta con il primo motivo che tali condotte andrebbero considerate espressione di fenomeni patologici che non possono rientrare nel concetto di 'maltrattamenti', così come inteso dalla norma in esame, in quanto prive di una chiara connotazione negativa.

Quali esempi tipici della materialità dei maltrattamenti, il ricorso indica: il consentire al minore di vivere in stato di abbandono in strada per chiedere l'elemosina; la ripetuta esposizione del minore a contesti erotici; l'utilizzo di mezzi e metodi trascendenti qualsiasi aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico formativo, sostanziati in percosse e punizioni umilianti e gratuite.

Si tratta ad avviso del difensore di condotte tutte che si qualificano per una chiara “connotazione negativa”, talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, come peraltro indica, inequivocabilmente, la stessa rubrica dell'art. 572 c.p.

La conclusione dell'argomentare difensivo è quindi nel senso che - al contrario - gli atteggiamenti di iperprotezione o di ipercura, lungi dal costituire i maltrattamenti sanzionati dalla nonna, integrano la ripetizione di condotte che nascono come positive e certo ispirate da intenzioni lodevoli, salvo poi riverberare effetti negativi su chi tali condotte subisce a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione.

Da ciò deriverebbe che l'ipercura e l'iperprotezione, addebitate ai G., non possano costituire l'elemento oggettivo dei reato di maltrattamenti, atteso che tra le due condotte, quella di chi maltratta e quella di chi ipercura o iperprotegge, esiste, con tutta evidenza, un'incompatibilità strutturale insanabile.

Ritiene il Collegio che lo sforzo del difensore, pur apprezzabile per il suo sviluppo dialettico, parta da una “posizione riduttiva” nella lettura del dettato normativa, dimenticando che nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati secondo il lessico del ricorrente da una “chiara connotazione negativa”, ma anche dalla tutela dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma (Cass. pen. sez. 6, 37019/2003 Rv. 226794), interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente.

In tale quadro, poco conta la “soglia di sensibilità del minore vittima”, la quale, non solo per il grado di sviluppo psico-fisico della persona offesa, ma, soprattutto, perché essa, oggettivamente disafferenziata dai contesti di riferimento (“gruppo dei pari di età”), di necessità, non può disporre di standard di peso della negativa e deteriore realtà in cui è costretta a vivere.

In tale quadro si appalesa quindi irrilevante il riferito “stato di benessere del bambino”, tenuto conto che, non a caso, in tutti i sistemi di civiltà evoluta, lo Stato può verificare in modo intrusivo le “realtà di disagio anomalo” nella famiglia e le loro cause umane, imponendo prescrizioni ai familiari, sino alla decadenza dalla potestà, all'allontanamento, e allo stato di adattabilità del minore stesso.

Né miglior sorte va riservata al secondo profilo critico del ricorso, prospettato per negare la materialità dei maltrattamenti, sulla base del rilevo che il reato esige - come risultato - che gli atti di maltrattamento (lesivi dell'integrità fisica o morale, della libertà o del decoro della vittima) siano tali da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e la persona offesa, con conseguente necessità, ad avviso del ricorrente, di un rapporto diretto tra colui che pone in essere le condotte di maltrattamento ed il soggetto che, in ragione di tali condotte, trova sofferenza e disagio ed, ancora, che vi sia un rapporto causale diretto tra maltrattamento da un lato ed il dolore ed il disagio dall'altro, realtà che nella vicenda sarebbero escluse dal manifestato benessere del minore di vivere iperaccudito nella realtà familiare.

La conclusione della difesa soffre dello stesso vizio di lettura della precedente doglianza in quanto pone, come crinale e “discrimen” del maltrattamento, lesivo dei processi di crescita psicologica e fisica del minore, il grado di percezione del maltrattamento stesso ad opera della vittima minorenne.

Non è chi non veda l'insostenibilità dell'assunto che fa dipendere l'oggettiva sussistenza della condotta illecita dalla “variabile soglia di sensibilità della vittima”, che, in quanto minore esige efficace tutela, anche contro la sua stessa infantile limitata percezione soggettiva.

La critica va quindi rigettata, senza dimenticare la regola che in ogni caso, a prescindere dalla minore età della vittima, il reato de quo mai può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali o, come nella specie, scelte e stili pedagogici obsoleti, od in assoluto contrasto con principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli articoli 29 - 31 Cost. (cfr. Cass. pen. sezione.6, 46300/08, Fhami; Cass. Penale sez. VI, 3398/1999 1 Rv. 215158, Bajarami).

Quanto al tema della “deprivazione psicologica” e quindi della “rimozione della figura paterna”, sostiene il difensore che non sarebbe emersa alcuna prova certa in ordine all'asserito condizionamento psicologico, tanto più che l'avversione del minore nei confronti del padre, ad esito del giudizio di primo grado, era già stata temporalmente e c:ausalmente collocata con riguardo al fortissimo trauma subito in occasione dei tentativi di allontanamento ed, in generale, all'iter doloroso cui il minore sì sentiva sottoposto a causa dei pur nobili intenti del padre.

Il motivo, per come profilato, non supera la soglia dell’ammissibilità.

Nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, sul punto della “rimozione della figura paterna” considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.

In conclusione l'esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una “mirata rilettura” di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonché nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, oppure perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

Il motivo va quindi respinto in tutte le sue articolazioni.

2.2) la sussistenza dei profili soggettivi del contestato delitto.

Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p.

Con ili terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p. per difetto del dolo.

I due motivi tra loro correlati vanno congiuntamente esaminati e valutati.

Il difensore, nel prendere atto che se può essere fonte di censura, o di rammarico, il modo in cui i G. recepiscono gli accadimenti, nonché “la rigidità e la chiusura mentale che mostrano”, sostiene che “non si può esigere che tale dato, ineliminabile e per così dire strutturale, cambi nel momento in cui tutta la famiglia si sente sotto attacco”, circostanza peraltro che a suo avviso non varrebbe ad integrare il dolo richiesto dalla norma.

In buona sostanza ed in altre parole: l'assunto difensivo è che difetterebbe la seppur minima consapevolezza di creare disagio in R., in persone adulte e mature per le quali, osserva peraltro il Collegio, non è stata prospettata avanti ai giudici di merito alcuna questione di non-integrità dei processi di intelligenza e volontà.

L'argomento non regge.

Invero, se è ragionevole ritenere che, inizialmente, la diade “madre-nonno” possa aver agito in buona fede, sia pur secondo una falsa coscienza, nella scelta delle metodiche educative e nell'accurata attenzione nell'impedire contatti di ogni tipo al bambino, isolandolo nelle sicure “mura domestiche”, tale profilo soggettivo non aveva più motivo di sussistere dopo i ripetuti sinergici interventi correttivi di una pluralità di esperti e tecnici dell'età evolutiva e del disagio psichico ed i conformi interventi dell'autorità giudiziaria.

La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, talora imposte e talora pure concordate, segnala, al di là di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza, la pacifica ricorrenza in capo agli accusati della intenzionalità che connota il delitto ritenuto nei termini correttamente ribaditi dai giudici di merito.

Il motivo va quindi rigettato.

2.3) Il trattamento sanzionatorio.

Con un quarto motivo i ricorrenti evidenziano l'illogicità della motivazione, posta a fondamento del trattamento sanzionatorio, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione per la donna, ed aòòa quale si è comunque accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati, desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato.

Anche questo motivo non ha fondamento.

Il trattamento sanzionatorio paritario risulta efficacemente argomentato, già in primo grado, con riferimento al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, attribuite al nonno per la sua incensuratezza ed alla E. G. (con precedenti) per il ruolo in sottordine rispetto al padre.

Quanto al richiamo alla prosecuzione della condotta illecita, utilizzato dalla corte distrettuale per ribadire “ad abundantiam” le formulate argomentazioni, in punto di conferma della sanzione, valorizzando in proposito anche il dispositivo di una sentenza di condanna per lo stesso illecito (decisione non definitiva ed acquisita agli atti in appello dalla parte civile), va rammentato che il principio di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma secondo, Cost., vieta di assumere appunto la “colpevolezza” a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell'accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali. (Cass. pen. sez. 1, 4878/1997 Rv. 208342).

Bene pertanto di tale circostanza è stato fatto uso per valutare la personalità dei rei nell'esercizio del potere discrezionale nella determinazione della pena.

Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonché apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata nelle conformi decisioni dei giudici di merito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Maltrattamenti, coniuge, rapporti sadomaso, configurabilità

Cassazione penale , sez. VI, sentenza 29.10.2011 n° 39228


Si configura il reato di maltrattamenti a carico del marito che, per tutto il periodo della convivenza, abbia sottoposto la moglie a rapporti sadomaso al fine di manifestare il proprio disprezzo nei confronti della stessa, e questo anche quando la donna non abbia sempre rivestito un ruolo remissivo.

(*) Riferimento normativo: art. 572 c.p.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 23 settembre - 28 ottobre 2011, n. 39228

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Avverso la sentenza con cui in data 15.2.2011 la Corte d'appello di Roma ha confermato la sua condanna deliberata dal locale Tribunale il 28.3.2007, per il delitto di maltrattamenti in danno della moglie B.R., ritenuto consumato fino all'aprile 2004, ricorre a mezzo del difensore fiduciario S.P.G., deducendo:

- erronea applicazione dell'art. 572 c.p. e mancanza di motivazione, perchè la Corte distrettuale avrebbe argomentato solo sul dolo di sopraffazione ma non sull'obiettiva sussistenza dell'abitualità di condotta; il peculiare rapporto tra i coniugi, descritto come di tipo sadomasochista con molteplici inversioni di ruolo, sarebbe incompatibile con continue sistematiche ed unilaterali vessazioni;

- erronea applicazione della prescrizione del reato, che avrebbe dovuto escludere dalla valutazione probatoria i singoli fatti pregressi, sì da escludere che quelli residui potessero integrare il requisito dell'abitualità: nella specie avrebbero dovuto essere esclusi tutti gli episodi di ingiurie e percosse collocati temporalmente prima dell'agosto 2003 (tenuto conto della data della sentenza d'appello);

- vizi di motivazione in merito alle censure mosse con l'atto d'appello, in ordine: alla credibilità della B. con particolare riferimento alle sue azioni civili ed alle denunce indicative del suo interesse anche patrimoniale, nonchè alle dichiarazioni sulle ragioni del matrimonio, con risposte della Corte distrettuale non pertinenti; all'incompatibilità tra il carattere della donna, quale descritto anche in sentenza, ed il ruolo di abituale vittima; ai riscontri, quanto alle dichiarazioni testimoniali ed ai documenti sanitari;

vizi di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio in ordine al diniego dell'attenuante ex art. 62 c.p., n. 2 ed al beneficio della non menzione;

- erronea applicazione della legge processuale in ordine alla valutazione equitativa del danno morale risarcito, secondo il ricorrente preclusa laddove consentirebbe quantificazioni in assenza di puntuale indicazione ed allegazione delle ragioni che fonderebbero il danno morale.

1.1 Il difensore ha depositato memoria, in particolare a sostegno della non configurabilità del reato in relazione alle sole due condotte che dovrebbero considerarsi non prescritte.

2. Il primo ed il terzo motivo sono infondati perchè, pur richiamando lo schema formale dei soli vizi ammessi nel giudizio di legittimità, in realtà svolgono entrambi deduzioni volte a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio in termini diversi da quelli, tra loro conformi, cui sono giunti i Giudici dei due gradi di merito.

La Corte d'appello, in particolare, dopo aver dato puntuale conto delle doglianze difensive (pag. 1), ha espressamente motivato:

sull'attendibilità della persona offesa pur nello specifico contesto evidenziato dai motivi d'appello, confrontandosi in particolare con il tema dei ricorsi per separazione ed i loro contenuti, la querela e le richieste economiche; sulla peculiarità del rapporto tra moglie e marito e sugli aspetti definiti di sadomasochismo, spiegando perchè quella peculiarità non era incompatibile con le condotte ascritte all'imputato e perchè il carattere anche non remissivo della donna non evitasse una sua situazione di debolezza e fragilità nei confronti del marito; sulla sussistenza di riscontri esterni rispetto al punto delle conseguenze di condotte di obiettiva violenza; sul legame unitario - anche in ordine al dolo di maltrattamenti - tra i singoli episodi, sorretto da un atteggiamento mentale di vero e proprio disprezzo del S. nei confronti della moglie, per le ragioni ed il contesto che aveva dato luogo al loro matrimonio, protrattosi per tutta la durata della convivenza. Si tratta di un apprezzamento articolato, che si salda a quello pure specifico del Giudice di primo grado, non incongruo agli atti richiamati, attento al confronto con le doglianze di impugnazione (in gran parte riproducesti prospettazioni già esaminate e disattese dal Tribunale), sorretto da motivazione non apparente e immune dai soli vizi - di manifesta illogicità e contraddittorietà - che, soli, rilevano nel giudizio di legittimità. E poichè, come noto, alla corte di cassazione compete non la scelta tra la più opportuna o adeguata ricostruzione dei fatti, ma solo la verifica logico/giuridica della decisione dei Giudici del merito, ogni censura che in realtà costituisce critica alla ricostruzione ed all'apprezzamento del fatto non può trovare ingresso.

Infondato è anche il secondo motivo. In sintesi, il ricorrente pare sostenere che la prescrizione dovrebbe coprire, e quindi vanificare anche storicamente, le condotte concretizzatesi prima dell'agosto 2003, prescindendo dalla loro eventuale autonoma rilevanza penale, sicchè le condotte successive andrebbero valutate nella loro assoluta ed esclusiva storicità, senza tener conto alcuno della pregressa vicenda: da qui, in particolare, l'impossibilità di tener conto delle condotte precedenti per apprezzare la riconducibilità delle condotte consumate nel periodo successivo alla data di prescrizione alla caratteristica incriminatrice dell'abitualità.

La tesi è, appunto, infondata. Come già sostenuto da autorevole dottrina, il delitto di maltrattamenti è, come ogni reato abituale, "reato di durata", sicchè mutua la disciplina della prescrizione da quella prevista per i reati permanenti: per questo, per i reati abituali "il decorso del termine di prescrizione avviene dal giorno dell'ultima condotta tenuta (la quale chiude il periodo consumativo iniziatosi con la condotta che, insieme alle precedenti, forma la serie minima di rilevanza"). Fatti/condotte che, insieme tra loro, costituiscono il maltrattamento, possono singolarmente avere pure autonoma rilevanza penale, costituendo così ipotesi di reati concorrenti. Quando tali condotte, di autonoma concorrente rilevanza penale, risultano consumate in un periodo temporale antecedente a quello di prescrizione del singolo reato (concorrente), cessano di avere rilevanza penale quanto a tale titolo autonomo (concorrente), ma non vengono affatto cancellate o dissolte, nella loro storicità, da tale prescrizione, mantenendo quindi piena rilevanza in relazione al diverso ed autonomo titolo costituito dal delitto di maltrattamenti, per il quale la prescrizione, appunto, non decorre se non dall'ultima condotta idonea a suffragare/integrare una componente di tale fattispecie. In altre parole, e per mutuare la felice locuzione della richiamata dottrina, quando alcuna condotta costituisce anche autonomo reato, altro dall'art. 572 c.p., la prescrizione del primo non determina affatto una interruzione fattuale tale da determinare ed imporre la decorrenza di una nuova "serie minima di rilevanza", quanto al diverso reato di maltrattamenti, con le conseguenze propugnate dal ricorrente.

Nè su tale ricostruzione sistematica ha rilevanza la disciplina introdotta dalla L. n. 251 del 2005. L'estensione dell'innovazione lì prevista per il reato continuato anche al reato abituale, pur sostenuta da parte della dottrina, pare muovere dal presupposto, invero proposto in termini sostanzialmente apodittici, che la struttura del reato abituale sia più simile a quella del reato continuato, piuttosto che a quella del reato permanente. Ma è proprio il delitto di maltrattamenti che, potendo constare anche di condotte prive di autonoma rilevanza penale e tuttavia dimostrative della sussistenza e poi permanenza di un contesto oggettivo e soggettivo di maltrattamento, segna l'evidente differenza non solo con la struttura del reato continuato (dove ogni condotta ha necessariamente una specifica e delineata, anche temporalmente, rilevanza penale) ma pure con la ratio della innovazione introdotta dalla L. n. 251, che se trova giustificazione (in termini di razionalità della scelta, non necessariamente della sua univocità) per il reato continuato, non certo per caso non è stata estesa anche al reato permanente, come pure avrebbe in ipotesi potuto farsi (ben potendosi astrattamente sezionare anche le condotte permanenti, pur tutte rilevanti a configurare l'unico reato).

E del resto, che un medesimo fatto possa essere apprezzato, dal punto di vista della legge penale, in plurimi modi e con diverse conseguenze anche sul piano della disciplina sanzionatoria complessiva, anche nelle sue implicazioni in ambito di prescrizione, risulta evidente sol che si pensi all'ipotesi della rapina commessa con oggetto atto ad offendere dove, nel caso di contestazione autonoma dell'aggravante e contravvenzione, la (frequente) prescrizione della seconda mai potrebbe determinare conseguenze sulla sussistenza della rilevanza penale del fatto ai diversi fini della circostanza aggravante.

Il motivo sul trattamento sanzionatolo è diverso da quelli consentiti, perchè - a fronte di motivazione specifica e non apparente della Corte d'appello su entrambi i punti, con indicazione di parametri congrui agli assunti cui perviene su di essi (p.4) - si risolve in censure di merito.

L'ultimo motivo è inammissibile perchè nuovo, non essendo stata la questione proposta specificamente, nei termini ora presentati, negli originari motivi d'appello, che si dolevano solo della sopravvalutazione del danno (pag. 16).

Al rigetto del ricorso segue la condanna dell'imputato ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute per questo giudizio di cassazione dalla parte civile liquidate come da dispositivo, tenuto conto delle tariffe professionali e dell'attività prestata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile B.R., liquidate in complessivi Euro 2300,00 oltre iva e cpa.

Responsabilità dei genitori: in cosa consiste la prova liberatoria?

Cassazione civile , sez. III, sentenza 06.12.2011 n° 26200


Il caso

P. e M.T. convenivano, davanti al Tribunale di Bologna, L. e G.N e N.P. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti da M.T., all’epoca minorenne, ad opera di L.N., anch’egli minorenne, per un incidente verificatosi durante lo svolgimento di una partita di calcio.

I convenuti, costituitisi, contestavano il fondamento della domanda.

Il tribunale, con sentenza del 16.6.2003, dichiarava che l’infortunio si era verificato per colpa esclusiva di L.N. condannandolo al risarcimento dei danni, e rigettava le domande risarcitorie nei confronti dei genitori esercenti la potestà sul minore, escludendone la responsabilità ai sensi dell’art. 2048 c.c.

Ad eguale conclusione perveniva la Corte d’appello che, con sentenza del 30.8.2008, rigettava l’appello proposto dai T.

Normativa

Codice civile


Art. 2048. Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d'arte

Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all'affiliante.

I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.

Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto.
Sentenza

I criteri in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori consistono, sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, sia anche, e soprattutto, nell’obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l’educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari (Cass. 13.3.2008 n. 7050; Cass. 20.10.2005 n. 20322; cass. 11.8.1997 n. 7459).

La norma dell’art. 2048 c.c. è costruita in termini di presunzione di colpa dei genitori (o dei soggetti ivi indicati).

In relazione al’interpretazione di tale disciplina, quindi, è necessario che i genitori, al fine di fornire una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa desumibile dalla norma, offrano, non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (e ciò perché si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere ed all’indole del minore (c. anche Cass. 14.3.2008, n. 7050).

Inoltre, l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su di un minore, può essere ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c. (Cass. 7.8.2000 n. 10357).

Nella specie, non solo una tale prova liberatoria non è stata fornita, ma le modalità stesse del fatto sono tali da apparire suscettibili di essere interpretate come indice di un deficit educativo.

La sentenza non offre alcuna indicazione di una prova liberatoria fornita o richiesta dagli attuali resistenti; né una supposta mancata pronuncia sul punto è stata oggetto di rilievo da parte degli stessi in questa sede.

La ricostruzione del fatto operata dalla Corte di merito – come si ricava dalla sentenza impugnata – è del seguente tenore: «…il N., nel corso di una partita di calcio, ebbe a colpire con una violenta testata alla bocca il giocatore della squadra avversaria T. M. e ciò mentre il gioco era fermo e senza avere in precedenza subito un’aggressione da parte del T.».

Ora, in considerazione di questo accertamento in fatto – rilevante e non contestato -, la Corte si sarebbe dovuta porre il problema se un comportamento anomalo di tal genere, volontario e violento, in alcun modo giustificabile, per non essere stato neppure commesso durante una fase del gioco e nella concitazione del momento, ma a gioco fermo e deliberatamente, fosse indice di una educazione inadeguata rispetto ai dettami civili della vita di relazione e sportivi, la cui responsabilità – in difetto di una puntuale prova liberatoria – non poteva che ricadere presuntivamente sui genitori, venuti meno ai doveri sugli stessi incombenti ai sensi dell’art. 147 c.c..

Una corretta applicazione della norma dell’art. 2048 c.c. – sulla base delle considerazioni che precedono – avrebbe imposto un tale esame; ma di ciò non vi è traccia nella sentenza impugnata.

Erra, inoltre, la Corte di merito quando afferma «…Ne discende che in tale contesto non ha alcun rilievo l’educazione e la vigilanza spettante ai genitori in linea generale posto che gli stessi non avrebbero in alcun modo potuto intervenire nel corso della competizione sportiva per impartire direttive al figlio o comunque prevedere o impedire l’evento trattasi di un ambito del tutto escluso dal loro intervento, dovendosi il comportamento del N. attribuire in via esclusiva al soggetto stesso ben consapevole delle regole del gioco e del comportamento a cui avrebbe dovuto attenersi e che invece ha deliberatamente violato».

Nessun rilievo, infatti, acquista nell’economia della vicenda, né la impossibilità di intervento nel corso della competizione da parte dei genitori, né un dovere di vigilanza che, in questo caso, potrebbe ritenersi spettare agli organi sportivi.

Ciò che è rilevante è il difetto di un adeguato insegnamento educativo che ha permesso al minore di ritenere lecito od anche solo consentito – nell’ambito di un evento sportivo ed in assenza di una qualche giustificazione anche solo presunta – un comportamento così violento, impulsivo ed ingiustificato in danno di un altro minore, giocatore anch’egli.

Questa regola di diritto, d’altra parte, è il frutto di un bilanciamento di interessi contrapposti (balancing test) che, nel complesso giudizio sulla responsabilità per i danni ingiusti alla persona, intende allocare il rischio sul danneggiante, con le conseguenze indicate.

La sentenza impugnata è pertanto cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi al seguente principio di diritto: Ai sensi dell’art. 2048 c.c., i genitori sono responsabili dei danni cagionati dai figli minori che abitano con essi, per quanto concerne gli illeciti riconducibili ad oggettive carenze nell’attività educativa, che si manifestino nel mancato rispetto delle regole della civile coesistenza, vigenti nei diversi ambiti del contesto sociale in cui il soggetto si trovi ad operare.

Conclusivamente, il ricorso è accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione.

mercoledì 30 novembre 2011

Avvocato molesto? Legittima la sanzione disciplinare dell'Ordine

Cassazione civile , SS.UU. sentenza 07.11.2011 n° 23020


Non vi è conflitto tra articolo 5, comma 2, del Codice deontologico forense e articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo.

Così i giudici della Suprema Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 7 novembre 2011, n. 23020.

Secondo quanto precisato dal menzionato articolo 5, infatti, la condotta del legale non deve uscire dall’ambito privato e familiare, poiché del tutto rispettabile, e non deve riflettersi in maniera negativa sulla reputazione professionale oppure compromettere l’immagine della classe forense.

Pertanto, la condotta dell’avvocato può essere censurabile disciplinarmente proprio quando travalichi l’ambito privato e familiare, ossia quell’ambito tutelato dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La sanzione della censura al legale, assolto da reati penali, è legittima anche nella ipotesi in cui i comportamenti abbiano valenza personale, ma colpiscano la reputazione professionale dell’iscritto compromettendo l’intera classe di appartenenza.

Come si può leggere testualmente nella sentenza che si annota, infatti “L'art. 8 C.E.D.U., premesso che ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza, vieta ingerenze anche da parte di un'autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto, fatti salvi il caso di esplicita previsione normativa e la necessità per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Ma la norma in esame non è certo di ostacolo al perseguimento dei reati e, di conseguenza, anche degli illeciti disciplinari.

Essa inibisce indebite intrusioni e aggressioni alla sfera privata e familiare delle persone, ma lascia integro il potere - dovere delle autorità competenti di valutare e, occorrendo, sanzionare comportamenti che si pongano in contrasto con i rispettivi ordinamenti.

Nella specie i fatti addebitati al ricorrente avevano formato oggetto di verifiche da parte del giudice penale che, pur se concluse con esiti a lui favorevoli, avevano determinato l'uscita dei medesimi dall'ambito tutelato dalla norma in esame”.



Cade da un gradino sconnesso: responsabilità oggettiva del custode

Cassazione civile , sez. III, sentenza 14.10.2011 n° 21286


Con la sentenza 14 ottobre 2011, n. 21286 si consolida l’orientamento della Suprema Corte sulla natura oggettiva della responsabilità per il danno cagionato da cose in custodia.

Ciò significa che il relativo addebito è ancorato esclusivamente al nesso di causalità tra la res ed il danno, senza che concorra a qualificare la condotta del custode alcun elemento psicologico. La prova liberatoria è costituita esclusivamente dalla dimostrazione che il fatto sia imputabile al caso fortuito, così da recidere il suddescritto legame eziologico.

Il principio in questione – posto in discussione da Cass. Civ. n. 3651/2006, secondo la quale l’art. 2051 c.c. prevedrebbe una fattispecie di “colpa presunta” a carico del custode, dando luogo ad un’inversione dell’ordinario onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c. in combinato disposto con l’art. 2043 c.c. – è stato riaffermato da una pronuncia immediatamente successiva della Suprema Corte (n. 15383/2006) e mai più abbandonato.

Nel caso in esame la Cassazione è stata investita da un quesito di diritto formulato dalla ricorrente che – essendo rimasta soccombente nei due gradi di merito promossi per conseguire il risarcimento dei danni riportati in conseguenza di una caduta su un gradino sconnesso all’interno di un edificio pubblico – ha adito il giudice di legittimità richiamando, sia pure in maniera farraginosa, lo “stato dell’arte” della giurisprudenza di legittimità, espresso nei seguenti termini: “il semplice rapporto con la cosa in custodia e il nesso causale tra la cosa e il danno arrecato fa sorgere la responsabilità oggettiva di chi si trova in una relazione di fatto con la cosa che gli consente di prevedere e controllare i rischi ad essa inerenti, sempre che il danno sia provocato dalla cosa sussistendo, quale limite di responsabilità, il caso fortuito ed essendo il danneggiato tenuto a provare soltanto l’esistenza di un effettivo nesso causale tra cosa e danno, spettando, invece, al custode provare positivamente il fatto estraneo alla sua sfera di controllo avente impulso causale autonomo rimanendo la responsabilità in capo al custode qualora persista l'incertezza sull'individuazione della causa concreta”.

Il Supremo Collegio ha assolto al suo obbligo motivazionale con l’asettico richiamo al quesito di diritto sopra trascritto (“corretta e condivisibile appare la doglianza della difesa del ricorrente”), mancando così l’occasione di fare chiarezza in ordine al profilo eziologico che dirime la soluzione di siffatte controversie.

Da un lato, infatti, i giudici di legittimità ritengono (correttamente) che onere del danneggiato è quello di dimostrare l’esistenza di un “effettivo” nesso causale tra cosa e danno; dall’altro, però aggiungono che il custode rimane responsabile qualora non riesca a provare che l’evento è imputabile ad un fattore estraneo alla sua sfera causale e persista, quindi, incertezza sull’individuazione della causa concreta.

La regola di giudizio elaborata dalla giurisprudenza di legittimità appare contraddittoria, posto che il nesso eziologico non può dirsi “effettivo” quando rimanga un alone di “incertezza” sulla causa concreta. Secondo il percorso logico suggerito dalla Suprema Corte, la res oscilla tra il ruolo di mera occasione eziologicamente irrilevante e quello di causa efficiente in funzione non tanto dell’attività processuale della vittima (che pure è onerata della dimostrazione dell’effettivo nesso causale tra cosa e danno) quanto dell’impegno probatorio del custode. Ciò stride, vieppiù, con l’indagine officiosa del rapporto causale e dell’eventuale ricorrenza del “fortuito”, non vincolata al regime delle eccezioni in senso proprio e stretto (cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 11015/2011).

Uno spunto di riflessione, per individuare le anomalie del sistema, si può rintracciare nella eccessiva estensione del concetto di “caso fortuito”, realizzata al fine di alleviare la posizione del custode, gravato dalla natura oggettiva della sua responsabilità, ma che nelle applicazioni pratiche dà luogo ad uno scostamento dai tipici meccanismi di addebito sine culpa, (ri-)avvicinando la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c. alle ipotesi di “colpa presunta”.



venerdì 18 novembre 2011

Alcoltest: quando il farmaco non salva il conducente

Cassazione penale , sez. IV, sentenza 26.10.2011 n° 38793


Il farmaco assunto che ritarda lo smaltimento di etanolo dal sangue non giustifica il conducente risultato positivo al test alcolimetrico.

E’ questa, in estrema sintesi, la conclusione a cui è pervenuta la Corte di Cassazione, sez. IV penale, con la sentenza 29 settembre - 26 ottobre 2011, n. 38793. Nel caso di specie i giudici di merito avevano condannato nei due gradi di giudizio la conducente ritenuta colpevole del reato di guida in stato di ebbrezza.

Infatti, l’imputata era stata fermata alla guida della sua autovettura e sottoposta al test alcoli metrico con un risultato superiore ai limiti consentiti. Entrambi i giudici hanno ritenuto colpevole la donna nonostante l’asserita assunzione di un farmaco tale da ritardare l’eliminazione dell’alcool dal sangue, in quanto la documentazione medica acquisita in causa non dimostrava affatto che i farmaci assunti potevano aumentare i dati di concentrazione dell'alcol, ma solo che probabilmente ritardavano l'eliminazione dell'etanolo dal sangue e dunque che lo smaltimento dell'etanolo avveniva in tempi più lunghi. Pertanto, i risultati del test dovevano essere considerati validi e attendibili ed in colpa la conducente quanto meno per non aver agito in modo da evitare il superamento dei limiti di concentrazione di alcol nel sangue consentiti.

I giudici di Piazza Cavour confermano quanto già stabilito dai giudici di prime cure stabilendo che il parametro di riferimento adottato dal legislatore per valutare lo stato di ebbrezza non è rappresentato dalla quantità di alcol assunta, bensì da quella assorbita dal sangue, misurata in grammi per litro.

Si tratta con tutte evidenza di una presunzione iuris et de iure, che porta a ritenere il soggetto in stato di ebbrezza ogniqualvolta venga accertato il superamento della soglia di alcolemia massima consentita, senza possibilità da parte del conducente di discolparsi fornendo una prova contraria circa le sue reali condizioni psicofisiche e la sua idoneità alla guida.

Nella specie, per averlo ammesso la stessa imputata, è pacifico che avesse assunto un bicchiere di vino, atto che soltanto la stessa conducente colloca alcune ore prima del controllo, sostenendo che il permanere e il potenziamento dell'effetto di tale modesta quantità di alcol erano conseguenza del farmaco.

Anche ammesso che ciò possa essere vero – proseguono gli ermellini -, la responsabilità dell'imputata è correttamente accertata: infatti chi sa di assumere farmaci di tal genere deve astenersi dalla ingestione di alcol e specialmente deve evitare di mettersi alla guida oppure deve controllare con gli appositi test facilmente reperibili in commercio di trovarsi in condizioni tali da non risultare passibile della sanzione penale.

Ne consegue il rigetto del ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.